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Sala 1a. Dal mare alla savana
La sala illustra l’evoluzione fisica del territorio dal mare del Pliocene alle prime fasi continentali del Villafranchiano. Contesti di organismi fossili vertebrati e invertebrati documentano la varietà faunistica che contraddistingueva i diversi tipi di ambiente del mare preistorico.
Le prime faune continentali tra il Villafranchiano e il Pleistocene inferiore e medio sono esemplificate da una associazione di fossili dei mammiferi che popolavano un ambiente simile alle savane africane.
Approfondimenti
Le rocce ed i sedimenti che affiorano in una determinata area geografica permettono al geologo di ricostruire le complesse vicende geologiche che si sono succedute nel corso del tempo e sono importanti testimonianze delle continue trasformazioni della crosta terrestre. Nella carta geologica riportata in questa vetrina è indicata l’estensione in superficie delle rocce e dei sedimenti, di età e composizione diversa, che sono stati riconosciuti nel territorio toscano. In particolare, se concentriamo la nostra attenzione sull’area del Valdarno inferiore, vediamo che i sedimenti più comuni sono costituiti da depositi detritici, in prevalenza di origine marina, che hanno cominciato a formarsi circa 7,5 milioni di anni fa, nel corso del Miocene Superiore. Durante questa epoca geologica infatti importanti movimenti della crosta determinarono lo sprofondamento di numerosi settori della attuale Toscana e portarono alla formazione di una serie di depressioni, chiamate dai geologi Graben. Queste depressioni furono riempite, per uno spessore fi no a circa 2000 m, da sedimenti dovuti all’ erosione delle aree emerse che si stavano sollevando e che avrebbero dato origine alla catena Appenninica. Sabbie e argille formano infatti la netta maggioranza dei corpi sedimentari delle successioni stratigrafi che del Valdarno inferiore e conferiscono a questa area il tipico paesaggio collinare, caratterizzato da forme dolci e valli ampie.
All’inizio del Pliocene, circa 5,5 milioni di anni fa, tutta la penisola italiana fu interessata da forti movimenti tettonici di sprofondamento che determinarono una marcata ingressione marina (trasgressione). In Toscana il mare raggiunse il piede della catena appenninica fi no al Monte Albano e ai Monti del Chianti. Le testimonianze di questa trasgressione sono documentate dai depositi di origine marina che affiorano estesamente nelle aree a sud del corso dell’Arno; a Nord dell’Arno la trasgressione pliocenica ha lasciato tracce evidenti apparentemente solo nella zona compresa tra Cerreto Guidi e Fucecchio.
Nel Pliocene Superiore (da 2,6 a 1,8 milioni di anni fa), una ripresa del sollevamento della crosta terrestre provocò un’inversione di tendenza, determinando un generale ritiro del mare. In questa fase l’ Italia presentava un aspetto non molto diverso da quello attuale. Durante il Pleistocene, da 1,8 milioni a 10000 anni fa, la Toscana costituiva ormai un’unica vasta area continentale caratterizzata dalla presenza di laghi e valli fluviali; solo le zone più vicine alla costa furono interessate da trasgressioni marine. Nel Pleistocene Medio le oscillazioni del livello del mare furono determinate non solo dai movimenti tettonici, ormai abbastanza limitati, ma anche dalle frequenti oscillazioni climatiche dovute alle alternanze di fasi glaciali ed interglaciali che interessarono questo periodo geologico.
Il bacino idrografico dell’Arno si è formato in tempi “relativamente recenti”; l’attuale corso si è infatti sviluppato nell’arco delle ultime centinaia di migliaia di anni attraverso una successione di eventi che lo hanno fatto diventare l’asse principale del sistema idrografico della Toscana settentrionale. Durante il Pliocene Inferiore e Medio il reticolo idrografi co della Toscana era poco sviluppato, con corsi d’acqua che sfociavano in mare dopo un percorso relativamente breve. In questa fase il paleo-Serchio, attuale affluente di destra dell’Arno, aveva un andamento Nord Ovest-Sud Est e sfociava nel mare Tirreno in una zona compresa tra Montecatini ed Altopascio, il paleo-Lima e il paleo-Sieve avevano un andamento opposto a quello attuale, con direzione verso il Mare Adriatico.
Alla fine del Pliocene, circa 2 milioni di anni fa, la struttura del drenaggio subì una profonda trasformazione in seguito alla formazione di almeno sei bacini di origine tettonica (Graben): Altopascio, Firenze-Pistoia, Mugello, Valdarno superiore, Val di Chiana e Casentino. In queste aree depresse si originarono ampie zone lacustri. A partire dall’inizio del Pleistocene Medio si ebbe un’importante riorganizzazione dell’intero drenaggio che alla fine dello stesso periodo ha portato alla situazione attuale.
I sedimenti che formano i rilievi dell’area di Ponte a Cappiano sono costituiti da alternanze di strati di sabbia con livelli di ciottoli. In questi depositi, formatisi sul fondo del letto di antichi corsi d’acqua, si rinvengono talvolta i resti fossili degli animali che abitavano la zona durante il Pliocene ed il Quaternario. La fauna fossile fu raccolta tra il 1898 e il 1923 e conservata, insieme alla collezione ornitologica visitabile al piano secondo del museo, nella villa di Tricolle dai proprietari Lensi fino all’acquisto da parte del Comune. I resti fossili appartengono a sei specie di mammiferi. Sono presenti un mastodonte, (1, Anancus arvernensis), un equide dalle proporzioni scheletriche simili a quelle delle zebre (6, Equus stenonis); un cinghiale di origine orientale (8, Sus strozzii), un cervide dalle dimensioni del daino (4, Pseudodama sp.), un cervide di taglia più grande (3, Eucladoceros sp.) ed un bovide (5, Leptobos sp.). Queste specie, comuni in molte altre località europee, sono vissute nel Villafranchiano medio, tra i 2,2 e 1,9 milioni di anni fa.
E’ l’antenato del più recente Mammut lanoso (Mammuthus primigenius), originario della Siberia e poi diffusosi in tutto l’emisfero boreale durante l’ultima glaciazione (tra i 100 e i 10 mila anni fa). Il Mammut meridionale (Mammuthus meridionalis) è il primo elefante ad aver raggiunto l’Europa occidentale, circa 2,5 milioni di anni fa, a seguito dell’espansione degli ambienti di prateria. È possibile distinguere i rappresentanti più antichi di questa specie di mammut, come quelli rinvenuti nel Val d’Arno inferiore, da quelli più recenti, come quelli del Valdarno Superiore, sulla base del numero di lamelle di smalto nei molari, più basso nei primi. Il Mammut meridionale sopravvisse in Europa fino al Pleistocene medio, estinguendosi circa 800 mila anni fa. Le sue dimensioni erano notevoli: si conoscono esemplari maschi di più di 4 metri di altezza alla spalla.
Questo felide, della taglia di un leone, era provvisto di lunghi canini superiori ricurvi, con margini seghettati. Questi animali hanno avuto un’ampia distribuzione geografica, dal Nord America, all’Eurasia e all’Africa, e sono vissuti tra i 3 milioni di anni fa ai 500 mila anni fa. La forma del loro corpo è stata interpretata come un adattamento alla caccia di prede di grandi dimensioni, e infatti in molte località nordamericane, i fossili di questo carnivoro sono associati a numerosi resti di cuccioli di mammut.
I fossili sono resti di organismi vissuti nel passato geologico, che si sono eccezionalmente conservati e si ritrovano all’interno delle rocce e dei sedimenti. Gli organismi possono essere sia animali che vegetali e si considerano fossili non solo le parti scheletriche o i gusci, ma anche le impronte, i modelli interni e persino gli escrementi.
La fossilizzazione è un evento molto raro che avviene soltanto in determinate condizioni. La sequenza di eventi che portano alla fossilizzazione ed al ritrovamento dei resti fossili inizia inevitabilmente con la morte di un organismo. Le sue spoglie vanno poi incontro ai processi di decomposizione. Le parti più resistenti, cioè le ossa, i denti, i gusci, le corna ecc., se sepolte abbastanza rapidamente dal sedimento, subiranno una serie di processi di tipo fisico-chimico che le trasformeranno in fossili.
Il primo processo cui vanno incontro le spoglie degli organismi dopo la morte è la decomposizione delle parti molli. Questo spiega perché la documentazione fossile è più ricca per quegli organismi che possiedono parti dure come ossa o gusci. Il corpo di un organismo può inoltre rimanere nel luogo della morte oppure essere trasportato in zone lontane, in genere ad opera di acque marine o fluviali.
Ciò che rimane del corpo di un organismo viene sepolto dal sedimento. Se la velocità di seppellimento è particolarmente alta ed i processi di decomposizione non hanno ancora portato alla completa distruzione di legamenti e tendini è possibile la conservazione di individui eccezionalmente completi.
Una volta che i resti sono inglobati nel sedimento iniziano quei processi di tipo chimico che rappresentano la fossilizzazione vera e propria e che sono legati alla presenza di acqua all’interno del sedimento. Il resto organico, per effetto di questa acqua, subirà o una dissoluzione oppure una mineralizzazione, con precipitazione di minerali, come calcite o silice, nelle piccole cavità presenti al suo interno.
Le varie vicende geologiche, come sollevamenti di catene montuose ed i processi erosivi, portano alla luce i resti fossili che possono essere così rinvenuti e studiati dal paleontologo.
Il mare del Pliocene nel Valdarno Inferiore
I fondali sabbiosi
Le lagune
Il coralligeno
Le profondità
I fondali sabbiosi
Qualche metro sotto la superficie del mare vive la fauna dei fondali sabbiosi. Molte specie di molluschi appartenenti al gruppo dei bivalvi, come i cuori di mare, le telline, i veneridi e i cannolicchi, sono in grado di infossarsi rapidamente. Rapidi sono anche i predatori, come i gasteropodi naticidi, se è necessario agguantare un bivalve e perforarne lo spesso guscio per nutrirsi delle sue parti molli o i coni di mare con i loro arpioni velenosi in grado di uccidere i pesci più grandi. Lenta e metodica è invece l’opera degli spatangoidi, parenti del riccio di mare, che con le loro esili spine muovono uno ad uno i grani di sabbia e le particelle di nutrienti, vivendo in lunghe gallerie. I loro resti accumulati nei secoli e nei millenni costituiscono la parte più importante degli accumuli fossiliferi delle colline toscane, dai dintorni di Fucecchio e San Miniato, fino ai rilievi di Volterra e del Senese. I gusci calcarei dei molluschi costituiscono il gruppo più importante dei fossili pliocenici della Toscana e si ritrovano a volte nella posizione che avevano quando la morte ha colpito o più spesso rimossi da altri abitatori dei fondali o dalle onde.
Le lagune
Accanto alle coste sabbiose, protetti da qualche cordone sabbioso, si distendono ampi specchi d’acqua salmastra. L’acqua è stagnante, l’ossigeno scarseggia, ma la fauna lagunare è in grado di sostenere le repentine variazioni di questi ambienti troppo ricchi di risorse. La strategia degli animali qui è duplice: da un lato, ogni individuo sopporta le ampie fluttuazioni della salinità o la scarsità dell’ossigeno disciolto nell’acqua, dall’altro fronteggia l’imprevedibilità di questo ambiente mettendo al mondo una prole numerosissima con la quale garantire il mantenimento della specie. Non è infrequente trovare nelle colline del Valdarno giacimenti fossiliferi ricchi di bivalvi lagunari ancora in posizione di vita, accanto ai resti di gasteropodi cerizi e potamidi che voraci si muovevano un tempo durante la bassa marea, a pascersi di alghe e altri vegetali sul fondo nero di materia organica.
Il coralligeno
La temperatura dell’acqua del mare pliocenico non è sufficientemente alta per sostenere la solida trama della barriera corallina. Tuttavia, rosse distese di alghe incrostano il fondo qua e là, impedendo alla sabbia di muoversi, pavimentandone la superficie. A profondità poco maggiori dei fondali sabbiosi, troviamo infatti quella comunità di organismi conosciuta oggi come coralligeno, con la sua grande varietà di animali e piante. Come i rossi litotamni, principali responsabili della biocostruzione, alcuni sono incrostanti: i briozoi, i coralli, i vermeti e le ostree. Un’altra parte è formata dal gran numero dei variopinti organismi che vivono nascosti e ancorati negli anfratti: pettini, spugne tubolari, ricci di mare, gasteropodi nudibranchi. Nella sabbia tra le alghe sono ancora i bivalvi a farla da padroni, molti dei quali sono voraci di sedimento e del particellato alimentare che esso contiene. Nelle zone esposte alle correnti marine è il verde delle laminarie a suggerire lo scenario, assieme a quello delle altre alghe che colgono l’energia, per fornirla poi agli abitanti erbivori con il tessuto delle loro fronde.
Le profondità
La vegetazione a volte rigogliosa delle acque meno profonde lascia il posto ai fondali più spogli delle profondità che solo debolmente vengono illuminate dai raggi del sole. La lenta pioggia di particelle organiche prodotte alle basse profondità, nella zona illuminata, fornisce sostentamento agli animali dei fondali più profondi. Tra gli organismi che lavorano il sedimento trattenendo la materia organica in esso contenuta troviamo i piccoli bivalvi del gruppo delle nucule o gli esili scafopodi dentalii, accanto a qualche verme priapulide o oloturia che difficilmente lascerà traccia di sé, se non in forma di qualche lamina concentrica attorno a quella che un tempo fu la propria abitazione. Sopra di essi, gasteropodi predatori, stelle serpentine e penne di mare che filtrano l’acqua alla ricerca di cibo sospeso, in una varietà di forme che sorprende.
Bibliografia
F. Chesi, La fauna villafranchiana di Tricolle, in La Collezione naturalistica Lensi del Museo civico di Fucecchio, a cura di A. Vanni Desideri, Firenze 2009, pp. 59-63.