Sala 6. Una storia dell’Arno

La sezione espositiva dedicata al tema del commercio lungo la valle dell’Arno nel lungo periodo è stata sviluppata in collaborazione con la Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio di Firenze tramite un’ampia esemplificazione di contenitori da trasporto (anfore) attestati lungo la valle dell’Arno dal IV sec. a.C. al V sec. d.C. come documenti del commercio fluviale in età antica. Da questi contenitori, ormai ben noti dalla letteratura specifica, è infatti possibile risalire alle aree di produzione e al contenuto trasportato in modo da ricostruire quali derrate alimentari transitassero lungo l’Arno, da quali porti mediterranei provenissero e quindi dedurre le modificazioni dei flussi commerciali tra il mare e l’entroterra toscano nel lungo periodo.

 

Fin dall’antichità più remota, la valle dell’Arno è stata al centro di una fitta rete di scambi, mettendo in comunicazione i centri interni toscani con il Mediterraneo. Le maggiori città della Toscana devono la loro nascita e sviluppo proprio alla presenza del fiume e si concentrano infatti in prossimità della sua valle.

Ma l’Arno ha anche favorito lo sviluppo delle aree rurali e le sue rive erano punteggiate fin dall’antichità di scali fluviali che servivano una quantità di insediamenti minori che dal fiume ricavavano le occasioni di scambi commerciali.

I primi mille anni di questa lunghissima storia sono descritti da un’esemplificazione delle anfore da trasporto, attestate dalle ricerche archeologiche lungo la valle, dalle quali è possibile ricostruire le modificazioni dei flussi commerciali tra il Mediterraneo e l’entroterra toscano.

Approfondimenti

L’Arno ha rappresentato fin dall’antichità una fondamentale via d’accesso alle aree interne della Toscana, fornendo il collegamento con il mare. Le opportunità di trasporto e di commercio offerte dal fiume e la fertilità dei terreni del Valdarno hanno attratto gli uomini e hanno favorito la nascita di nuclei abitati. Le città principali lungo l’Arno furono –e sono tuttora- Pisa e Firenze, pur esistendo una fitte rete di villaggi minori posti lungo il corso del fiume. Pisa, di maggiore antichità, sfruttava un’articolata serie di porti e approdi sul litorale, che le davano ricchezza e prestigio, verso cui confluivano grandi quantità di beni e di merci da tutto il Mediterraneo, sia in età etrusca che romana. I porti pisani erano un vero e proprio centro di raccolta e di redistribuzione dei prodotti importati verso l’interno tramite la via fluviale, e, in senso opposto, verso essi confluivano le derrate prodotte nell’entroterra, per essere esportati verso altre regioni. L’impiego di chiatte e di barche addette alla navigazione lungo l’Arno, rendeva dunque comodo il trasporto di grandi quantità di merci, il cui trasporto su strada sarebbe stato molto più difficile e costoso.

Il fiume rappresentava dunque nell’antichità una vera e propria porta d’accesso alle coste del Tirreno e del Mediterraneo, attraverso cui circolavano non solo alimenti e beni materiali, ma anche uomini, idee, tradizioni.

In età romana la via principale tra Pisa e Firenze era la via Quinctia, parallela all’Arno, che fu promossa, nel II secolo a.C., dal console T. Quinctio Flaminino.

La Tabula Peutingeriana, il documento che descrive la viabilità del mondo romano tardoantico testimonia l’esistenza di tre località situate tra Pisa e Firenze. Ancora più importanti e convenienti erano le vie d’acqua, ovvero l’Arno ed i suoi affluenti. Punto focale dei commerci marittimi e fluviali in quest’area erano i porti pisani distribuiti lungo la costa: San Piero a Grado, Isola di Migliarino e il Portus Pisanus, presso l’attuale Livorno. Questi erano il centro di raccolta e di redistribuzione delle merci, sia provenienti dall’interno che da tutto il mondo romano che,  caricate su navi più piccole, risalivano l’Arno verso l’entroterra. Alcune di queste navi venivano trainate da terra da bestiame o da schiavi. Tra queste erano le naves caudicariae, chiatte prive di vele e con albero dotato di argano, i lenunculi a remi e privi di chiglia e di vele e le lintres, piccole barche strette e lunghe simili ai barchini del Padule di Fucecchio. Oltre ai porti principali, lungo l’Arno si trovavano approdi e scali, come appunto quello presso Fucecchio, collegati a nuclei abitati o ville che assicuravano lo sfruttamento agricolo della pianura. Dalla fine del I secolo infatti, per iniziativa di Augusto, la campagna era divisa dalla centuriazione in lotti regolari di terreno da assegnare ai veterani dell’esercito dove i coloni costruivano le loro fattorie. I resti di una di queste è stata scoperta in via del Castelluccio, tra Fucecchio e Cappiano, da dove provengono ceramiche e altri oggetti utilizzati dagli antichi abitanti della fattoria, esposti in questo museo.

Sulle imbarcazioni che risalivano l’Arno viaggiavano merci provenienti da tutto il mondo romano: olio, metalli e garum (una conserva di pesce) dalla Spagna, il vino dalla Gallia; olio, garum e vasellame dall’Africa, il grano dall’Egitto; dall’Oriente, insieme al vino, arrivavano spezie ed oggetti di lusso. Di gran parte di questi beni si sono ormai perse le tracce, ma un indizio della loro esistenza è fornito dalle anfore, ovvero i contenitori nei quali viaggiavano.
I centri del Valdarno sfruttarono il fiume anche per esportare i propri prodotti (ceramiche, legname, grano e vino). Il vino, in particolare, veniva esportato già tra il II secolo a.C. ed il II d.C. e, in età tardoantica, veniva commerciato con le “anfore di Empoli”, così chiamate da uno dei luoghi di produzione. 

I prodotti importati nella valle dell’Arno variano a seconda delle epoche.

Nel III-II secolo a.C. sembra arrivare in buona quantità il vino, prodotto in gran parte in Campania, Lazio e Sicilia, ed esportato nel resto d’Italia e nel Mediterraneo in anfore dette “greco-italiche”. Insieme alle anfore, negli abitati del Valdarno giungono anche stoviglie da mensa in ceramica “a vernice nera” (così chiamata per il colore nero della superficie) prodotte non solo in officine campane e laziali, ma anche in alcuni siti dell’Etruria stessa, tra cui Pisa e Volterra.

Nel corso del I secolo a.C. arriva ancora il vino italico, la cui produzione aumenta rispetto a prima, e che viene adesso esportato in Gallia e in Spagna in anfore Dressel 1, che rappresenta una evoluzione delle “greco-italiche”. I vasi a vernice nera vengono invece sostituiti dalla ceramica cosiddetta “sigillata italica”, di colore rosso all’esterno: importanti luoghi di produzione furono Pisa e Arezzo.

Nel corso del I-II secolo d.C., in età imperiale, i prodotti italici perdono poco a poco terreno sui mercati, affiancati e sostituiti dalle produzioni delle province, in particolare, di Spagna e Gallia. Dalla Spagna giunge in Valdarno soprattutto olio, in anfore Dressel 20, oltre a vino e garum, mentre la Gallia esporta grandi quantità di vino.

A partire dal III secolo d.C. fino alla fine dell’età antica, saranno le province del Nordafrica i principali produttori di alimenti, in particolare di grano, in gran parte destinato al mercato di Roma. L’Africa diviene il “motore trainante” dell’economia romana. anche in Valdarno arrivano dunque olio, garum, vino africano, mediante i numerosi tipi di anfore prodotti tra III e VII secolo d.C., anche se gran parte della produzione si colloca tra III e V secolo d.C. Insieme alle derrate trasportate nelle anfore, dall’Africa arrivano grandi quantità di ceramiche da mensa in “sigillata africana”, dalla superficie di colore arancio, e lucerne, a dimostrazione della vivacità economica delle province africane.

Dalla metà del VI si assiste in Valdarno ad un calo nelle importazioni, con un parallelo aumento delle produzioni locali delle stoviglie e di vino. In questo secolo, il controllo bizantino della penisola favorisce l’arrivo di anfore dalla Grecia e dal Medio Oriente, contenenti olio e vino.

In generale, la valle dell’Arno sembra molto viva dal punto di vista economico, che non sembra subire flessioni importanti e che anzi mantiene un ruolo di un certo livello ancora alla fine dell’impero romano e oltre. Le merci delle varie parti dell’impero arrivano in buona quantità, specialmente a Firenze e Pisa, i centri principali, dove sono stati ritrovati tutti i più importanti tipi di anfore e di ceramica da mensa.

L’importanza dell’Arno come via di transito è confermata ancora agli inizi del VI secolo d.C., dalle disposizioni del re goto Teodorico che proibiscono la realizzazione di chiuse o altre strutture che ne rendano difficile la navigazione.

Gli abitanti della valle dell’Arno non erano solo importatori di merci ed alimenti, ma sfruttavano il fiume anche per inviare i loro prodotti all’esterno. Le attività agricole e artigianali erano infatti piuttosto fiorenti, specie a partire dall’età augustea (fine I a.C.-inizio I d.C.). Tra le ceramiche esportate figurano i vasi a vernice nera e quelli in sigillata italica, quest’ultima realizzata in gran quantità soprattutto a Pisa e Arezzo, ed esportati in tutto il mondo romano. La grande quantità di produzioni ceramiche è legata allo sfruttamento dei banchi di argilla depositati dal fiume lungo le sue sponde, particolarmente adatti per queste produzioni. Tra i beni esportati figura anche il legname, dalle boscose colline della valle, e il grano.

La principale derrata del Valdarno era però il vino, che ha una lunga tradizione risalente al periodo etrusco, e che in età romana veniva esportato principalmente in anfore “greco-italiche”, Dressel 1, Dressel 2-4. Plinio il Vecchio, del resto, cita alcune varietà di uva dell’Etruria. Questa produzione continuò anche in età tardoantica, come dimostra l’esistenza dell’anfora “di Empoli”, prodotta tra III e V secolo d.C. e usata per il trasporto del vino della valle dell’Arno. Il nome deriva da alcune officine trovate nei dintorni di Empoli, dove si fabbricava questo contenitore; altre officine si trovano in area pisana e in altri siti del Valdarno. In queste anfore veniva esportato il vino sia verso Roma, sia verso il resto del Mediterraneo, a riprova della vivacità produttive e commerciale della valle dell’Arno ancora in quest’epoca.

Il fiume non era solo via commerciale, ma permetteva anche la circolazione di idee, uomini, culti. Questo permetteva alle zone più interne del Valdarno di entrare in contatto con il resto del mondo mediterraneo e di consentire l’arrivo di elementi nuovi nel tessuto tradizionale.

Di questo fenomeno, restano alcune tracce archeologiche importanti.

A Firenze, tra I e II secolo d.C., fu costruito un tempio a Iside, divinità orientale il cui culto fu diffuso probabilmente da mercanti che commerciavano con le province, attivi in città e lungo l’Arno. Non a caso, il tempio si trovava in un quartiere prossimo al fiume, probabilmente affollato di stranieri, e forse il culto di Iside si diffuse proprio per la vitalità mercantile della città.

Sempre a Firenze, alcuni secoli dopo (VI secolo d.C.) le lapidi funerarie scoperte sotto la chiesa di Santa Felicita provano la presenza di personaggi di origine siriana residenti in città, anch’essi evidentemente attivi nel commercio con il loro paese d’origine: la Siria era all’epoca molto ricca e produceva molti beni di lusso. I ritrovamenti della chiesa, anch’essa posta in prossimità dell’Arno, dimostrano l’importanza commerciale di Firenze, ancora in età bizantina. Gli individui ricordati nelle lapidi, scritte in greco, sono forse coinvolti nell’arrivo delle anfore dal Medio Oriente rinvenute nel sottosuolo della città.

Al di là di questi esempi, il fiume ebbe probabilmente un ruolo chiave anche nella diffusione del cristianesimo; è nota infatti l’importanza delle rotte marittime e fluviali per l’introduzione della nuova religione nelle varie parti dell’impero. Segno di questo fenomeno è forse la vicinanza di alcune chiese paleocristiane al corso dell’Arno, come la stessa Santa Felicita di Firenze (IV-V d.C.), oppure Sant’Ippolito di Anniano, presso Santa Maria a Monte (IV d.C.).     

Tra le principali derrate prodotte e commerciate del mondo romano, figura anche un alimento che può sembrare strano per il nostro gusto, se non addirittura disgustoso, ma che era molto apprezzato dagli antichi: il garum. Si tratta di una salsa di pesce ottenuta in questo modo: si collocavano in grandi vasche all’aperto le interiora di grandi pesci, come il tonno, ed esemplari interi di piccole specie, come sardine e acciughe, e si ricopriva tutto di sale, con l’eventuale aggiunta di spezie o erbe aromatiche, lasciando macerare al sole e mescolando frequentemente. in questo modo si formava un liquido, il garum vero e proprio, di qualità più pregiata, mentre il residuo semisolido di questo procedimento era l’allec. Esistevano numerose varietà di salse di pesce, di consistenza più o meno liquida (garum, allec, muria, liquamen), che nelle versioni più prelibate potevano raggiungere anche un prezzo molto elevato. La grande diffusione del garum prova tuttavia che le produzioni erano molte e di vario tipo, anche poco costose. Le salse di pesce compaiono in numerose ricette di epoca romana, soprattutto come condimento, ed erano dunque un alimento molto importante: è difficile dire quale sapore avessero, anche se alcune varianti non dovevano essere molto diverse dalla nostra pasta d’acciughe. 

La tecnica di produzione del garum permetteva di conservare il pesce a lungo e dunque di esportarlo anche a lunga distanza, in un’epoca in cui non si conoscevano altre tecniche di conservazione.

Il garum fu probabilmente inventato dai Greci (il termine deriva appunto dalla parola greca γάρον), che successivamente trasmisero la tecnica ai Cartaginesi e quindi ai Romani.

In epoca romana, le aree di maggiore produzione furono la Betica (Spagna del Sud), la Mauritania (Marocco), la Lusitania (Portogallo) e l’Africa Proconsolare (Tunisia), tutte zone ancora oggi molto pescose. Il garum più ricercato era probabilmente il garum sociorum, prodotto cioè dai socii (una specie di consorzio tra produttori) di Chartago Nova (odierna Cartagena, in Spagna), fatto principalmente con lo sgombro.

Il garum veniva trasportato in anfore apposite, ormai ben conosciute dagli specialisti, il cui studio ha permesso di conoscere le aree di produzione e di diffusione, oltre al volume dei traffici. In anfore viaggiavano anche pesci interi o a tranci, come provano le lische trovate in alcuni casi all’interno di questi contenitori in alcuni relitti.

Le anfore sono molto utili per la comprensione degli aspetti produttivi ed economici delle società antiche: questi contenitori sono stati prodotti per tutto il periodo dell’antichità in tutto il mondo mediterraneo Mentre la ceramica da mensa costituisce di per sé una merce da immettere sul mercato, le anfore sono manufatti utilizzati per contenere altri tipi di beni, in maggioranza di natura alimentare, per il trasporto o l’immagazzinamento. All’interno delle anfore viaggiavano infatti prodotti fondamentali per l’economia di determinate regioni mediterranee, in particolare il vino, l’olio e il garum, ma anche frutta, olive, legumi.

Il termine anfora si riferisce letteralmente a contenitori con due anse, in genere terminanti a punta e caratterizzati da dimensioni e volume di una certa entità. La forma è dettata da esigenze di praticità, robustezza e facilità di stivaggio. Le anfore venivano infatti impilate all’interno delle navi in modo da sfruttare al meglio lo spazio disponibile, e dovevano essere abbastanza robuste da sopportare gli eventuali urti di un lungo viaggi per mare.

L’importanza di questi contenitori da trasporto appare ben chiara se si pensa che essi rappresentano la sola testimonianza archeologica della produzione e dell’esportazione di derrate di cui non resterebbe altrimenti traccia, che nell’antichità alimentavano circuiti commerciali di dimensioni enormi e rappresentavano spesso la principale fonte di entrate per l’economia di intere regioni.

I tipi di anfore identificati sono centinaia, con differenze enormi riguardo alle dimensioni e all’aspetto delle singole parti del contenitore. Per gran parte delle forme sono note l’area di provenienza, il periodo di fabbricazione e il prodotto trasportato.

Spesso, sulla superficie dei contenitori si trovano bolli (stampi), graffiti o iscrizioni dipinte (tituli picti), che forniscono ulteriori informazioni sui produttori, sui mercanti, sulle merci trasportate, sulle quantità, sui prezzi.

Nel XVIII secolo il canonico Taviani, sulla base di un ritrovamento occasionale avvenuto durante l’ampliamento del santuario di S. Maria delle Vedute, suppone l’esistenza di un piccolo porto romano presso Fucecchio, cui dovevano far capo gli insediamenti agricoli del territorio e tra questi certamente quello corrispondente all’odierna Ponte a Cappiano.

Più tardi, proprio in corrispondenza di questo scalo, la via Francigena incrociava l’Arno, dando luogo a uno snodo di notevole importanza economica e infatti ancora qui, intorno al Mille, i conti Cadolingi stabilirono il castello di Salamarzana, baricentro di una signoria territoriale che determinò la nascita di Fucecchio. 

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