Sala 4. Dai Cadolingi all’età comunale

La sala è dedicata alla nascita del castello di Salamarzana e alle vicende che diedero luogo al castello di Fucecchio. La vasta signoria territoriale dei Cadolingi aveva il suo baricentro amministrativo nel castello di Salamarzana, fondato intorno al 982 da Lotario figlio del capostipite Càdolo, nel punto dove la via Romea attraversava l’Arno. Qualche anno più tardi, al castello si affiancò l’abbazia di San Salvatore, come nello schema gemello, composto dalla stessa famiglia più a monte in riva sinistra dell’Arno, presso Firenze, con il castello di Montecascioli e l’abbazia di San Salvatore a Settimo. Oltre l’esposizione degli elementi in cotto che decoravano la sommità della chiesa abbaziale alla fine del 1100, nella sala si possono osservare per la prima volta tutte le epigrafi prodotte dalla famiglia e qui riunite mediante stampe 3D ad altissima definizione e un video che ne aiuta la lettura. Il successivo sviluppo del castello di Fucecchio è tracciato da un video che ricostruisce l’aspetto che aveva ancora nel 1503, quando Leonardo da Vinci lo disegnò nella carta del Valdarno inferiore.

Approfondimenti

La famiglia dei Cadolingi è una della più importanti della Toscana del X-XII secolo. Originari della città di Pistoia, dove il capostipite Càdolo aveva ottenuto il titolo di conte, e di lontane ascendenze longobarde, poco prima del X secolo spostarono i loro interessi verso le sponde dell’Arno. Fondarono quindi il castello di Salamarzana, presso l’attuale Fucecchio, a controllo del passo d’Arno da parte della via Romea, come baricentro amministrativo (curia) di una vasta signoria territoriale estesa tra il Valdarno e la bassa Valdinievole, e successivamente affiancato dall’abbazia vallombrosana di San Salvatore e da fondazioni ospedaliere. Quasi contemporaneamente, più a monte del corso del fiume e quasi alle porte di Firenze, fondarono il castello di Montecascioli  e la vicina abbazia di San Salvatore a Settimo. La famiglia si estinse piuttosto presto, nel 1113 con Ugolino, lasciando un’eredità che fu  contesa dalle città vicine e da signori laici ed ecclesiastici, spesso con l’uso delle armi. 

Fondato intorno al Mille dal figlio di Cadolo, Lotario I, il castello di Sala­marzana raggiunse la sua massima complessità nel XII secolo, al tempo di Ugolino III.

Le ricerche archeologiche hanno dimostrato la presenza dei resti della residenza signorile alla base della trecentesca Torre Grossa. Si trattava di una massiccia torre in pietra, realizzata sul margine dell’altura, secondo tecniche edilizie diffuse a Lucca e Pistoia proprio intorno al Mille. A quota inferiore gli scavi archeologici degli anni ’80 del secolo scorso hanno individuato i resti di un villaggio rurale con abitazioni in legno ed argilla con tetti in ardesia.

Sia la torre che il villaggio dovevano essere cinti, sul margine dell’altura, da una cortina difensiva in mu­ratura o legno.

Al tempo di Ugolino, la via Romea passava sotto il castello e lo separava dal poggio di Salamarzana. Questo era un’area agricola dove erano presenti vigne, orti e abitazioni rurali e che fu presto donata dallo stesso Ugolino per la ricostruzione del monastero di San Salvatore, distrutto dall’Arno nel 1106. Qui era presente anche la pieve, fondata alla fine del secolo precedente per iniziativa di suo padre Ughiccione II. Ai piedi dell’altura della Salamarzana e presso la viabilità diretta verso settentrione, già il nonno di Ugolino, Guglielmo detto Bulgaro, aveva istituito l’ospedale di Rosaia per assistere i pellegrini che percorrevano la via Romea.

La casa scavata nel 1984 sul Poggio Salamartano, nel centro storico di Fucecchio, è un esempio di abitazione rurale bassomedievale in legno e argilla, molto raro soprattutto per le modalità di formazione e conservazione del deposito archeologico.

La sua vita si interruppe bruscamente nella seconda metà del XII secolo per un incendio avvenuto durante le attività militari che si succedettero dopo la morte del conte Ugolino, l’ultimo dei Cadolingi, nel 1113. Certamente l’incendio avvenne durante una delle tre distruzioni del castello nel 1136, nel 1161 e nel 1190 che coinvolse anche la chiesa della vicina abbazia di San Salvatore che infatti dovette essere ricostruita. Ma prima che questi scontri armati avessero luogo, sul Podium de Salamarzana, come era allora indicata l’area, oltre l’abbazia, erano presenti orti, vigne e case di agricoltori di cui l’edificio in questione doveva far parte.

Dalla modalità di formazione del deposito archeologico, causato dal crollo dal crollo del tetto, e dalla dislocazione degli oggetti domestici sul pavimento è stato possibile ricostruire l’organizzazione funzionale dello spazio interno.

La struttura ad unico ambiente, costruita dai suoi stessi abitanti secondo tecniche tradizionali, era realizzata su una piattaforma in terra battuta in cui erano infissi i pali di sostegno dell’elevato. Tra questi pali intrecci vegetali rivestiti di argilla costituivano le pareti. Come era normale prima dell’introduzione dei laterizi nel XIII secolo, il tetto era composto da lastre di ardesia, forse proveniente da cave situate sul versante lucchese dei monti pisani.

Un piccolo locale, separato dal resto della casa, era adibito a dispensa e proteggeva tre grandi orci che dovevano contenere granaglie. Ai piedi del palo centrale un’anforetta di tipo pisano assicurava la riserva idrica cui si poteva attingere tramite due boccali, mentre il focolare era ubicato in un angolo presso l’ingresso. Più all’interno, lungo le pareti, dovevano trovarsi i giacigli sottoforma di semplici pagliericci mentre, ai due angoli opposti in fondo all’edificio, era ricavata a sinistra una rudimentale latrina che scaricava nel pendio esterno mentre sul lato opposto si trovava la macina per la preparazione di farine. 

I resti ossei di animali rinvenuti sul pavimento indicano la presenza di specie allevate a scopo alimentare, tra cui esclusivamente pollame e ovi-caprini.

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Preceduto dalla chiesa di San Salvatore, fondata dal capostipite Cadolo e nota dal 986, il monastero fu fondato  dal figlio Lotario intorno al Mille presso il villaggio di Borgonuovo e il ponte sull’Arno. Distrutta nel 1106 da un’alluvione, fu ricostruita sull’altura di fronte al castello di Salamarzana sul terreno donato dal conte Ugolino, ultimo dei Cadolingi. Le frequenti  guerre  successive determinarono diverse distruzioni dell’abbazia che dovette essere più volte ricostruita. La chiesa attuale è databile tra la fine del XII e gli inizi del XIII secolo. [/caption]

La raccolta di riproduzioni epigrafiche riunisce in un’unica sede le numerose scritture su pietra che fanno riferimento diretto alla famiglia dei conti di Fucecchio. Gli originali si trovano infatti dislocati in luoghi diversi molto distanti fra loro, dalle valli dell’Appennino Bolognese, sopra Pistoia, fino al senese. In alcuni casi gli originali sono quasi del tutto nascosti alla vista e per questo poco conosciuti o difficilmente leggibili. Le ‘pietre scritte’ dei Cadolingi sono dunque illustrate attraverso il linguaggio video – osservando virtualmente le scritture dagli infiniti punti di vista del modello ottenuto tramite scansione 3D ad altissima risoluzione – e attraverso una scelta di pezzi riprodotti in scala 1:1.

Sulle cinque epigrafi che compongono il corpus si leggono i nomi di ben sei esponenti della famiglia vissuti fra il X e l’XI secolo, il periodo in cui i Cadolingi sono stati protagonisti della storia delle grandi famiglie comitali della Toscana. Tre uomini e tre donne: Cadolo, Lotario e Guglielmo, Adelasia, Gasdia e Cilla. Il Cadolo citato nell’epigrafe di Sant’Antimo fa riferimento al conte da cui la famiglia prese il nome. Suo figlio Lotario, con la moglie Adalasia, sono rammentati nella poco conosciuta (e dubbia) epigrafe di Badi, sull’Appennino Tosco-emiliano, in qualità di genitori del conte Guglielmo. Lo stesso nome –ma in forma grafica diversa- si ritrova su una seconda epigrafe, murata sul campanile della badia di Settimo, abbazia familiare dei Cadolingi dal tempo del conte Lotario. Divenne il luogo di sepoltura delle comitisse cadolinge: qui si conservano ancora in forma monumentalizzata i raffinati epitaffi funebri di Gasdia e Cilla, spose rispettivamente dei conti Guglielmo Bulgaro e Ughiccione. Un’antica tradizione narra che i due volti –l’uno maschile e l’altro femminile- che ornano un capitello figurato della duecentesca tinaia della badia di Settimo siano i ritratti del conte Lotario dei Cadolingi e della sua sposa Adalasia.

 

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